Oggi le foto non si scattano, si *consumano*. Le facciamo, le riguardiamo un secondo, poi spariscono in quella nube digitale dove finiscono anche i buoni propositi. Ogni tanto il telefono ti ricorda “un anno fa”, e tu pensi: *ma davvero ero io quella?* Poi scorri avanti e ti dimentichi di nuovo.
Una volta invece le foto si aspettavano. E quell’attesa era una parte importante della storia. Scattavi con la speranza che la luce fosse giusta, che nessuno avesse gli occhi chiusi, e che il dito del cugino non coprisse mezzo paesaggio. Poi portavi il rullino al negozio, pagavi in anticipo e tornavi dopo qualche giorno con il cuore in gola.
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| Image by Willfried Wende from Pixabay |
C’era qualcosa di quasi *romantico* in quell’incertezza: non potevi cancellare, né ritoccare. Le foto erano vere, anche quando venivano male. E quelle “mosse”, quelle un po’ storte o sfocate, finivano lo stesso negli album — spesso proprio accanto a quelle perfette, come a dire: “eh, la vita è questa”.
Io ho ancora scatole piene di fotografie stampate: viaggi, compleanni, amici con capelli improbabili, paesaggi che oggi sembrerebbero fatti con un filtro vintage ma allora erano solo… il mondo com’era. Ogni tanto ne apro una e mi sembra di sentire anche l’odore del tempo. Un misto di carta lucida, polvere e malinconia buona.
Certo, oggi è tutto più comodo: scatti, modifichi, condividi. Ma c’è una differenza enorme tra “guardare” e “tenere in mano”. Una foto stampata ti obbliga a fermarti, a toccare, a ricordare davvero. Forse è per questo che continuo a farne stampare qualcuna ogni tanto: per paura che, se resta solo sullo schermo, la memoria prima o poi faccia “swipe left”.
A me mi piace… ancora.
Alla prossima puntata.
📷❤️

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